Interviews

Mittelfest 1999. Demoni e fantasmi notturni della città di Perla.
Interview with Giampaolo Coral by Stelio Lutman.

Mr. Hyde? Trieste 2008. Interview with Giampaolo Coral by Daniela Ferletta.


Interview by Claudio Ambrosi DRS (Swiss Radio) with Giampaolo Coral, 1987.



Da un'intervista di Renzo Cresti a Giampaolo Coral:


Qual è il tuo rapporto con la tradizione culturale in genere e specificatamente con la storia della musica?

La Scuola di Vienna e in particolare Arnold Schönberg (con la sua musica e con i suoi scritti) hanno lasciato un segno indelebile nella musica che ho scritto. La mia tradizione culturale dovrebbe quindi essere quella che comunemente viene definita mitteleuropea. Mi sono spesso interrogato sul significato profondo di questa “appartenenza”, concludendo che questo termine è un superficiale e stereotipo cliché, un localismo sul quale molti intellettuali italiani hanno vissuto (e vivono) di rendita. Contiene inoltre un virus molto reazionario. Permette a chi non ha un’identità culturale di consolarsi con nostalgie del passato. Oggi la citazione, il rifarsi alla memoria, diventa il mezzo saccente di fare letteratura. L’osservazione di ciò che sta oltre il proprio naso è scomoda e non permette di soddisfare il proprio bisogno di originalità. L’orticello diviene il centro del mondo e si raccontano storie che avvengono in questo spazio mentale ristretto. Alfred Kubin, già nel 1908, con il suo romanzo fantastico Die andere Seite, aveva descritto questo Regno del Sogno separato dal mondo circostante, ma destinato alla disintegrazione. Nel 1997 ho composto una psico-musica (Demoni e fantasmi notturni della città di Perla) proprio su questo testo del visionario pittore austriaco. Per fortuna la musica vive in uno spazio e tempo diverso. Per un musicista l’eredità mitteleuropea si è conclusa con Darmstadt. L’esperienza cagiana ci ha insegnato inoltre che il mondo musicale è più ampio di quello che sembrava. Ho sempre cercato di osservare il mondo con questa visione, mi considero perciò un apolide culturale.

Qual è per te la funzione dell’intervallo?

La relazione – combinazione tra intervalli, come metodo costruttivo formale, è stata fondamentale per la musica che ho scritto in un periodo in cui indagavo, molto razionalmente, alcuni rapporti tra Soggetto ed Oggetto. Dovevo liberarmi, per quanto sia possibile farlo, dalle scorie della mia soggettività. Cercai di concretizzare questo processo non attraverso la casualità cagiana ma con la struttura. Vedevo in essa la cosiddetta forma pura che pur appartenendo sempre al Soggetto ne riduceva e purificava l’immagine, proiettandola solamente come estremo riflesso dell’ultimo riverbero di specchi, un lontanissimo eco. Questa mia esperienza “post – weberniana”, che culminò nella composizione della mia Seconda sonata per pianoforte (1979), sfumò gradualmente, naturalmente, quando mi resi conto che non era possibile dissociarsi da ciò che non si conosce e, nel mio caso, io non conoscevo me stesso. In quella musica non c’era dunque non solo l’autore ma neppure alcun personaggio. Cercai allora di capire chi sono. Si trattava di stendersi sul lettino dello psicanalista e auto- confrontarsi con l’Ombra. Nel percorso a ritroso (azione assai diversa dal consueto affidarsi alla memoria) dovevo entrare nella caverna e cercare la materia prima, bruciando la mia biblioteca. Solo allora ho trovato quella verginità che è emozione, fonte principale della presa di coscienza, senza la quale non avviene alcuna trasformazione e neppure creazione.

Vuoi provare a ridefinire i parametri musicali: melodia, armonia, polifonia, ritmo, timbro, dinamiche, altro.

Nel XX secolo tutti questi parametri della musica hanno subito una saturazione, una specie di putrefazione alchemica. Ciò è avvenuto anche alla fine del dicianovesimo secolo, con Richard Wagner. Dopo questa fase (dissoluzione) si sono aperti nuovi orizzonti (rigenerazione), una nuova terra fertile. Ovviamente questo passaggio deve essere compreso e vissuto dall’artista. Quando avviene la trasformazione di stato, il nuovo ha conoscenza del vecchio e non può più ritornarvi. Ciascun elemento ridiventa simile al tubetto di colore, intatto, per un pittore. Poi si deve osservare attentamente la nuova mescolanza (coagulazione) e l’insieme del risultato. Si capirà subito se l’opera deriva da quella operazione alchemica oppure diventerà “post - moderna” per un assai difficile e puro miracolo divino.

Quali sono i tuoi procedimenti mentali in genere? E quali le tecniche utilizzate per costruire un pezzo?

Potrò dare una risposta sufficientemente esaustiva a questa domanda solo quando avrò concluso il personale processo d’individuazione. Sino ad oggi vivo in una specie di alterazione febbrile che, con il tempo, si dovrà lentamente normalizzare. Cercare di capire cosa succede nel mio cervello e nella mia interiorità quando lavoro è un enigma che tento di risolvere proprio attraverso la composizione musicale. Scrivo per conoscere e trasformare il conosciuto. Un atto strettamente privato, solitario, che nasce da intuizioni improvvise derivate da continue riflessioni nei lunghi periodi in cui non scrivo nulla, durante le quali si esauriscono tutte le operazioni di scarto e cancellazioni di possibili idee da concretizzare. Solo allora avviene qualcosa di imprevedibile e incontrollabile. Gli impulsi, lo specchio dell’incontro con il sé, vengono canalizzati da un evento che ci costringe ad agire in una specie di trance, ascoltando la voce interiore. E’ la visita, come sostiene Maeterlinck nel Il grande segreto, dell’ospite non invitato. E’ l’”Uomo di Porlock”, il seccatore inatteso che, come scrive Fernando Pessoa, essendo perennemente sconosciuto, pur essendo noi stessi, dobbiamo ricevere per nostra debolezza, fra l’inizio e la fine di una poesia, che non permettiamo a noi stessi di vedere scritta. E’ lui la soror mystica, il suggeritore di tutto, anche della tecnica di cui ha bisogno l’opera per essere costruita, che è solo un frammento di ciò che, in realtà, non sappiamo cosa sia.

Come ti situi in relazione alle strade maestre del secondo Novecento e quali autori (storici o viventi) senti più vicini alla tua sensibilità e al tuo linguaggio? Hai rapporti di lavoro con altri compositori?

Per molti anni ho pensato e creduto che molti compositori definiti “storici” e riconosciuti di fama internazionale, fossero gli unici modelli da seguire, i depositari della verità. Ho incontrato anche personalmente alcuni di questi. Mi ricredetti quando, grazie anche alla mia attività di organizzatore di un festival di musica contemporanea, ebbi modo di conoscere “altri” compositori, di grandissima sensibilità e valore, spesso poco noti o del tutto sconosciuti.
Quelli che se ne stanno in disparte. L’industria culturale, (in realtà un ristretto circolo chiuso in mano a personaggi auto autorizzatisi a decidere su tutto), che confeziona, inventa, protegge e propone i propri prodotti anche nella musica contemporanea, ha creato (e continua a creare) alcune sopra- valutazioni che dovrebbero essere smascherate. Se qualcuno, fuori dal coro, si arrischia a denunciarle, viene immediatamente zittito.
Penso che i grandi maestri del secondo Novecento siano pochissimi. Sono quelli che, nella loro opera e ciascuno a loro modo, hanno capito la “difficoltà del comporre”, il ché significa rendersi conto della drammatica difficoltà, per l’Uomo, di trovare ancora possibili parole a dirsi, dopo le tragiche esperienze del XX secolo, a cominciare dall’Olocausto. Il pensiero contemporaneo, e quindi anche la musica, non può sottrarsi ad essere il testimone della propria epoca, con le sue contraddizioni e le sue laceranti inquietudini. Tutto quanto è stato detto, nell’Arte, nel secondo Novecento, eludendo questa “Testimonianza”, è effimero passatempo, divertimento, gioco, intrattenimento, narcisismo, mania di persecuzione, operetta viennese.

Qual è il tuo rapporto con la letteratura?

La letteratura e la pittura hanno avuto un ruolo importantissimo nella mia produzione musicale.
Alcuni testi letti da giovanissimo come la biografia di Van Gogh di Irving Stone o quella su Beethoven e Tolstoi di Romain Rolland, credo siano il rizoma psicologico del mio fare artistico.
Più tardi ho scoperto alcuni “mistici” e “ermetici” (Jakob Böhme, Emanuel Swedenborg, Michael Maier….) che mi hanno aperto un mondo di saggezza che ancora oggi cerco di approfondire.
La figura di Gregorio, descritto da Thomas Mann nel “L’Eletto”, e quella di Adrian Leverkühn, per esempio, mi hanno insegnato molte cose e sono sempre presenti nel mio percorso compositivo. Anche l’esperienza che ho avuto per dieci anni nel teatro di prosa (assolutamente nulla sul piano musicale in quanto solo artigianato, si trattava infatti, nella maggior parte dei casi, di ricostruire delle musiche secondo l’epoca della rappresentazione) mi ha arricchito sul piano culturale, mi ha permesso di conoscere approfonditamente il teatro di Pasolini, Hofmannsthal, Büchner, Kleist, Wedekind, Goldoni, Havel e tanti altri.
Devo dire che il rapporto con il testo è stato molte volte assai conflittuale specie nel periodo in cui cercavo di risolvere alcuni problemi personali, come ha detto Franco Donatoni, sulla difficoltà del comporre, sul “come” e “perché” fare, sulla distinzione tra musica “pura” e “impura” e sul rapporto tra Soggetto e Oggetto.
Sino ad oggi non credo di essere riuscito a trovare una soluzione generale, forse ho anche abbandonato il problema e lascio che ciò che mi viene suggerito venga scritto in (quasi) piena libertà.
Molti quadri ( di Paul Klee, di Arnold Böcklin, di Marc Chagall, di Alfred Kubin) e, in anni recenti, alcune ricerche sul processo veglia-sonno-sogno (Gérard de Nerval-René Daumal) mi hanno letteralmente dettato la composizione musicale.
Contrariamente ai libri di letteratura, che leggo ogni giorno, con la poesia ho un contatto molto egoistico. Tutto è condizionato dal mio stato d’animo. Allora cerco di trovare conforto in autori che presumo abbiano avuto una visione del mondo vicino alla mia (Georg Trakl, William Blake, Fernando Pessoa……..).

Nell’innegabile omologazione generale, com’è possibile trovare spazi vitali per l’indipendenza e il libero pensiero?

L’esigenza primaria e naturale per un compositore è proprio quella di uscire dalle convenzioni, da quanto già acquisito, dall’universo comune. E’ una condizione imprescindibile per chi cerca, s’interroga, esplora e inventa. In una società sempre più intossicata da condizionamenti di ogni tipo, il compositore o si adegua o si rifugia nell’isolamento dell’utopia. Non è una questione di ricerca a tutti i costi dell’eccentricità, che presume un riconoscimento e appagamento, ma, al contrario, una consapevole accettazione del rischio di una quasi certa esclusione e emarginazione.
Quando si riesce a costruire un’isola interiore che sta nel mondo, ma è lontana dal rumore del mondo, allora non si ha più bisogno di ulteriori spazi vitali e ci si appropria della dignità morale e della libertà creativa. Si giunge alla fase bianca nella quale anche l’interesse per le esecuzioni delle proprie opere, o la pubblicazione di un proprio libro, passa in secondo piano. Thomas Mann ha illustrato in modo mirabile l’autoriduzione a riccio, descrivendo, nel suo Der Erwählte, le vicende della diversità di Gregorio che da peccatore incestuoso, eremita per diciassette anni su una roccia solitaria, viene chiamato a Roma come papa. E’ il tema di Gesta, la musica per marionette composta da Adrian Leverkühn.